La cantina deve essere un posto accogliente, un luogo piacevole dove passare le giornate, perché il vino ha tempi di lavorazione molto lunghi, in particolare durante la vendemmia, quando la notte e il giorno hanno confini indefiniti nella sala lavorazione e la bottaia. La bellezza l’abbiamo eletta a nostra guida in questo progetto a partire dal paesaggio.
La cantina deve stare dentro al paesaggio, non lo deve disturbare, per questo i suoi muri non sono altro che il mettere ordine al pietrame che è la risulta dalla lavorazione del terreno, un ordine che ricalca l’estetica delle nostre storiche case di campagna e nelle viuzze dell’abitato. Deve accogliere le persone, non essere troppo chic.
Deve essere un posto dove tutti si sentono a casa. È un sogno, già la amiamo.
Perché abbiamo usato sui nostri vini la IGT Barbagia e non una Doc?
Spesso le IGT sono utilizzate per rifuggire gli schemi imposti dalle Doc e proporre dei vini innovativi, sia come caratteristiche produttive, a partire dai vitigni utilizzati e dalle tecnologie di cantina, sia nelle forme comunicative molto distintive, incentrate sul brand aziendale. Per noi non è così; siamo molto tradizionali sia per i vitigni utilizzati che per le tecniche produttive e la comunicazione basata sul semplice e comunitario, abc territoriale. Con questa scelta vorremmo proporre uno schema più veritiero rispetto alle Doc basate sul vitigno; quello del territorio e della vigna. Vi sono due grandi tendenze nel mondo del vino di qualità, una è quella delle DOC estese basate su un territorio molto grande o su un vitigno, con grandi consorzi che valorizzano i vini e che fanno leva sulla tecnologia produttiva per la differenziazione qualitativa, esempio classico: il vino Doc e il vino Doc riserva. L’altra è quella delle DOC che hanno nel territorio e nel vigneto le uniche caratteristiche distintive dei vini. Mamojada è una realtà che si vuole identificare con la filosofia della seconda opzione, purtroppo il nostro territorio non ricade su una Doc con queste caratteristiche. In attesa di una nuova Doc, abbiamo scelto di classificare i nostri vini come IGT Barbagia in quanto è la denominazione di qualità che fa riferimento al territorio, che maggiormente ci rappresenta. Il nostro non è un declassare il vino, ma chiamarlo con il giusto nome, è indicare in etichetta un indirizzo preciso, per quanto si può.
Cara’Gonare è la ghirada più piccola. Solo un ettaro. È anche la più nascosta e quindi riparata dai venti; non si vede il ponte, né nessuna strada; è per ciò molto silenziosa: si sente solo lo starnazzare minaccioso delle oche, il cuculo che canta annunciando i primi caldi, le pecore del vicino ed i propri pensieri.
Come in ogni famiglia numerosa c’è un figlio bravo, che non da troppi problemi ai genitori, non curandosi delle maggiori attenzioni riservate ai fratelli perché sa che ne hanno più bisogno; così Cara’Gonare cresce regolare, senza troppi intoppi. E quando arriva il suo turno la trovi così, quasi perfetta, un ritocco alla chioma e si va; nei suoi filari corti sembra quasi di volare .
Post Scriptum
Offre tramonti mozzafiato
La terra di su Teularju è originata dalla roccia madre, il granito.
Questo è eruttato dal profondo durante il Carbonifero (tra 359 e 299 milioni di anni fa), ricoprendo le rocce metamorfiche che si erano formate precedentemente per stratificazione nei fondali marini, quando ancora le acque ricoprivano tutto il pianeta.
Le rocce metamorfiche affiorano qua e là, ma a Teularju è il granito a fare da padrone.
Anche se durante il Triassico (252/201 milioni di anni fa) e il Giurassico (199/145 milioni di anni fa), le acque hanno nuovamente ricoperto il granito, queste non hanno lasciato segni visibili, anzi sembrano non esserci mai passate da queste parti. Ma non è così: il monte di Gonare, un imponente massiccio calcareo piramidale di 1083 metri, è lì a due passi a testimoniarlo.
In seguito, la Sardegna si è staccata dal continente dalla parte bassa della Francia ed è diventata essa stessa un piccolo continente posizionandosi nel bel mezzo del Mediterraneo, il nostro mare.
In Sardegna si dice “il mare mangia dalla montagna”: è questa che radica il nostro popolo dal punto di vista identitario e storicamente gli ha dato da vivere, seppure adesso le cose stanno cambiando, le coste, splendide, segnano una nuova era.
Il mare da noi arriva con il vento perché non è lontano, ancora una volta è il monte di Gonare a ricordarcelo. La leggenda narra che il giudice di Torres Gonario (1110-1182), sorpreso in mare da una tempesta al ritorno da un pellegrinaggio in Terra Santa, promise che avrebbe eretto una chiesa alla Madonna nel primo lembo di terra che avesse visto. Vide una luce su un monte che lo guidò a riva. Quel monte da lui prese il nome e dalla sua cima vicino alla chiesetta dedicata alla Madonna, nelle giornate ventilate, chiare, di mezza stagione, senza nuvole e senza l’aria che ondeggia per il calore, il mare lo si vede sia ad ovest che a est e si respira la sua aria.
La nostra vigna affonda qui le sue radici alle pendici della sacra montagna e a un passo dal mare. Terra, acqua, spiritualità, complessità che si rende presente e leggibile nel vino; frutto e salinità, dolcezza e acidità, dinamicità e fermezza, ti fanno venir voglia di essere grato di cercare gli amici e fare festa.
La nascita del nostro logo è un po’ avvenuta da sola: come le cose della vita che programmi con cura e puntualmente prendono un’altra strada che ti salta addosso e si impone con forza, al punto da lasciarti stupito per la sua adeguatezza.
Fare un disegno, oppure solo un logo, o ancora, disegno e logo?
L’idea di fare un’etichetta semplice, classica con un logo, alla fine ha prevalso, con modello ispiratore le etichette di Borgogna di cui siamo innamorati. Da qui gli elementi che lo compongono, sono venuti fuori da soli, uno dopo l’altro, come legati ad un filo.
Il logo è una brocca vinaria nuragica con il collo rotto, con una croce sbilenca al centro che, nell’alfabeto Ogham , conosciuto come alfabeto degli alberi, di origine forse Irlandese, forse sarda e utilizzato in Sardegna nel periodo nuragico, rappresenta la lettera M, da MUIN che significa vitis vinifera e da cui deriva la parola vino. Ci è piaciuto questo segno perché, come la croce cristiana ha due dimensioni, una orizzontale che significa la dimensione terrena e quella verticale la dimensione celeste, unite insieme. Questa caratteristica misterica è propria del vino, che prodotto della terra e della vite, ha una sua dimensione spirituale che esplica nel dare gioia all’uomo, nel metterlo in comunicazione con la bellezza. Nei riquadri quattro bronzetti nuragici di cui tre sono figure di offerenti, contadini -sacerdoti, che dedicano i prodotti della terra alle divinità, un quarto è una figura che versa il vino dalla famosa brocca ascoide.
Il font utilizzato per la scritta Teularju è il WT Bellochero Regular, un carattere di recente creazione con forme filanti ed eleganti che richiamano stili riconducibili al moderno e al vintage contemporaneamente. Noi Barbaricini da poco non siamo più arcaici e non siamo mai stati veramente moderni. L’asprezza e la bellezza di questa terra ci hanno preservato dalla serena disperazione di quest’epoca. Epoca esteticamente indefinita nel continuo miscelarsi di tendenze passate, in seguito alla morte di Dio nella mente dell’uomo, che ha demonizzato il presente e trasformato il futuro in minaccia. Nonostante ciò, l’uomo di oggi aspira, pur disordinatamente, all’autenticità e alla genuinità, speranza che si ritrova nella purezza delle linee di questo carattere.
Il nostro logo parla della nostra cultura, della nostra religiosità naturale, della dimensione misterica della vite e del vino che, nella fede cristiana, incarna la vita. Parla della bellezza della nostra terra e dei nostri vigneti, di un’estetica che da speranza. Parla del nostro essere contadini che fanno il vino come pretende la buona uva dei nostri vigneti , parla di persone che lo bevono facendo festa in compagnia.
Da sempre viviamo in questo territorio, siamo legati a questo vino, il vino di Mamoiada. Vino fatto senza forzature enologiche, da fermentazione spontanea sia alcolica che malolattica. Il territorio è vocazione e tradizione, è la comunità di vignaioli che lo abita, con cui beviamo, degustiamo, viviamo e godiamo assieme della bellezza del nostro territorio e del nostro vino.
A su Teularju nei primi due anni si sono tagliati i grappoli, il terzo anno abbiamo raccolto la prima uva e prodotto i primi vini. La nostra filosofia produttiva oltre che territoriale si basa sul fare vini di ghiradas, che è ognuna, la ghirada, un sotto cru per intenderci, del vigneto Teularju. Nel nostro paese da sempre si producono vini dei singoli vigneti e gli anziani quando assaggiano un vino chiedono di quale zona sia, poi chiedono il nome del produttore per individuare il vigneto e alcuni vigneti hanno nomea di grande qualità.
Nell’annata 2019 abbiamo prodotto il vino di Ocruarana e Cara’Gonare e abbiamo fatto anche una prova di bolla da vino rosato dalla ghirada Rizza. La prima raccolta il 12 settembre e la seconda il 5 ottobre.
La vinificazione: una parte di uve intere e il resto pigiadiraspato, fermentazione spontanea in piccoli tini, 12 giorni di macerazione. Pressatura soffice e travaso dopo un giorno e via in botti grandi di rovere nuove da 50 e 20 hl fino alla fine della malolattica, travaso e di nuovo in botte fino all’imbottigliamento dopo 12 mesi con basso uso di solfiti nelle varie fasi.
La bottiglia
La bottiglia borgognotta è stata una scelta meditata volendo sottolineare che i nostri vini sono vini di ghirada, di cru nel linguaggio corrente, sullo stile dei vini di Borgogna. La bottiglia non è pesante volendo tenere conto della necessità di consumare meno energia nei trasporti e nella produzione del vetro, il vino, sappiamo, non è penalizzato da questa scelta.
Tappi
I tappi sono di sughero sardo prodotti dalla famiglia Moro di Ovodda , monopezzo di alta qualità, controllati e garantiti per quanto riguarda il TCA.
L’impianto di una nuova vigna è una festa. Mi ricordo che a turno, altri viticoltori del paese vennero ad aiutarci a impiantare Teularju. Il giorno che toccò alla Ghirada Erula venne anche Francesco Cadinu, occhiali da ciclista per proteggersi dalla polvere, metro in mano e via a segnare i filari più lunghi di sempre: 20 filari da 300 metri, i più temuti per ogni lavorazione, quelli che prima di uscirne passerà almeno un’ora e mezza, quelli che solo con passione, forza di volontà, determinazione e coraggio si possono affrontare: insomma, roba da donne, sopratutto roba da Vincenza!!
Per fortuna, quasi come delle oasi in mezzo al deserto, ogni tanto, si ergono imponenti quelle quercie secolari, bellissime, che Francesco ha voluto salvare: la “Maestosa”, eretta sopra un nuraghe di massi giganti, regna sovrana indiscussa su tutta la vigna; la “Miracolata” (dai fulmini e da altre mille peripezie), proprio al centro di Erula, incontra l’orizzonte e corona la vista di Monte Gonare; la “Speranza” (che per noi è sempre l’ultima a morire), segna la fine dei filari più lunghi e ci rifocilla con la sua ombra. A ristorarci e supportarci tra un filare e l’altro, nella capezzagna c’è una fontana: acqua che sgorga freschissima durante tutto l’anno, una benedizione, un miracolo.
Ricordo l’ultimo giorno di impianto de su Pastinu, così si chiama in sardo mamoiadino il nuovo vigneto. Sarà un po’ per la nostra indole, e cultura, sarà perché il buon vino fa festa e a Mamoiada il buon vino non manca mai, sarà che ogni occasione è buona, finito il nuovo impianto, si festeggia tutti assieme. La tradizione vuole che tutti, chi ha partecipato all’impianto del nuovo vigneto, giri per il paese con la faccia dipinta di nero con del carbone. Dopo 2 settimane di lavori, barbatelle, pietre, aratri rotti e risaldati, diagonali e Gigi di Nuraminis, noi eravamo già neri, dalla polvere, dal carbone, e a fine serata anche dal vino.
Abbiamo festeggiato fino alle 2 di notte cantando e bevendo nei bar, stanchi, sporchi, consapevoli che l’indomani sarebbe stata un’altra giornata difficile, ma felici.
L’impianto di una nuova vigna è una festa. Mi ricordo che a turno, altri viticoltori del paese vennero ad aiutarci a impiantare Teularju. Il giorno che toccò alla Ghirada Erula venne anche Francesco Cadinu, occhiali da ciclista per proteggersi dalla polvere, metro in mano e via a segnare i filari più lunghi di sempre: 20 filari da 300 metri, i più temuti per ogni lavorazione, quelli che prima di uscirne passerà almeno un’ora e mezza, quelli che solo con passione, forza di volontà, determinazione e coraggio si possono affrontare: insomma, roba da donne, sopratutto roba da Vincenza!!
Per fortuna, quasi come delle oasi in mezzo al deserto, ogni tanto, si ergono imponenti quelle quercie secolari, bellissime, che Francesco ha voluto salvare: la “Maestosa”, eretta sopra un nuraghe di massi giganti, regna sovrana indiscussa su tutta la vigna; la “Miracolata” (dai fulmini e da altre mille peripezie), proprio al centro di Erula, incontra l’orizzonte e corona la vista di Monte Gonare; la “Speranza” (che per noi è sempre l’ultima a morire), segna la fine dei filari più lunghi e ci rifocilla con la sua ombra. A ristorarci e supportarci tra un filare e l’altro, nella capezzagna c’è una fontana: acqua che sgorga freschissima durante tutto l’anno, una benedizione, un miracolo.
Ricordo l’ultimo giorno di impianto de su Pastinu, così si chiama in sardo mamoiadino il nuovo vigneto. Sarà un po’ per la nostra indole, e cultura, sarà perché il buon vino fa festa e a Mamoiada il buon vino non manca mai, sarà che ogni occasione è buona, finito il nuovo impianto, si festeggia tutti assieme. La tradizione vuole che tutti, chi ha partecipato all’impianto del nuovo vigneto, giri per il paese con la faccia dipinta di nero con del carbone. Dopo 2 settimane di lavori, barbatelle, pietre, aratri rotti e risaldati, diagonali e Gigi di Nuraminis, noi eravamo già neri, dalla polvere, dal carbone, e a fine serata anche dal vino.
Abbiamo festeggiato fino alle 2 di notte cantando e bevendo nei bar, stanchi, sporchi, consapevoli che l’indomani sarebbe stata un’altra giornata difficile, ma felici.
Qualunque vignaiolo entri a su Teularju, passato l’iniziale terrore/stupore, vedendo l’albero che sta in mezzo alla ghirada sentenzia che non ci sta a far niente. Sarebbe stato meglio abbatterlo e far correre dritta la linea dei filari. Non si tratta di un albero molto fortunato; colpito ripetutamente dai fulmini ha una parte di corteccia bucata, inoltre l’impianto lo mise a dura prova, così mio padre per tutta l’estate torrida del 2017 lo innaffiò regolarmente.
L’anno dopo però ecco spuntare i bruchi, o meglio, un’invasione di bruchi; questi divorarono tutte le foglie e quando avevamo cercato di aiutarlo con il bacillus turigensis sembrava ormai troppo tardi; il suo destino era, a parer nostro, segnato.
Invece poi, uno dei primi giorni di primavera 2019, le avevamo trovate lì in una mattina qualunque: le foglie verdi.
Quindi tutto sommato non era stata una decisione sbagliata lasciarlo lì in mezzo, sebbene quando a nostro padre, Francesco Sedilesu, chiedano il perché abbia deciso di lasciare proprio quell’albero, avvalla molte ragioni: perché essendo troppo grande non se la sentiva di abbatterlo, perché è radicato in una macchia di pietra durissima, o perché voleva tagliare la vista dell’orizzonte, rendendo meno spaventosa la ghirada.
Ci sono tanti motivi insomma; a noi figli dice sempre che quell’albero può offrire occasione di riposo alla sua ombra mentre lavoriamo quei filari sconfinati, ma in realtà quest’occasione ancora non si è presentata.
Solo un giorno di Maggio, mentre passavamo proprio in quei filari, impegnati con la potatura verde, sentimmo dei rumori provenienti dall’interno della corteccia dell’ albero, io ovviamente pensai ad un topo enorme, così mio fratello Giuseppe Sedilesu decise di lanciare una pietra dentro per costringere l’animale a uscire allo scoperto. Qualche tonfo e poi eccola lì, immensa. Una civetta bianca. Rimanemmo a bocca aperta finché i nostri occhi poterono vederla mentre volava accecata dalla luce cercando un altro riparo.
Quella quercia è una casa, questo basta.
L’impianto, a Maggio del 2017, è andato benissimo nonostante le pietre che impedivano alla macchina impiantatrice di lavorare. La pioggia, tanto invocata dopo l’impianto, non è mai arrivata fino all’autunno, ma la terra sotto era umida, frutto di una bella nevicata invernale. La vite con una sola irrigazione ha avuto un buon sviluppo e c’è stata poca moria di piante.
Durante l’inverno con l’inizio del 2018 ha iniziato a piovere e non ha più smesso. Non si riusciva più a entrare in campo e le erbe hanno letteralmente sommerso le piante che avevamo lasciate libere di svilupparsi senza legarle al tutore. Piano, piano con la trincia e a mani abbiamo liberato le piante, potate e zappate a mano; lo facciamo sempre, così conosciamo ogni pianta con le sue caratteristiche e operiamo di conseguenza, mio padre Giuseppe ha sempre detto “è la pianta che deve parlare”, non servono i modelli preimpostati.
Il tipo di allevamento che vogliamo realizzare è l’alberello alto in cui la palificazione e i fili servono a sorreggere la vegetazione annuale. Le cure al vigneto le facciamo con zolfo per l’oidio e poco rame per la peronospora in via preventiva; facciamo anche prove con olio di arancio e tannino di castagno nelle rare annate in cui ci sono degli attacchi importanti. I pali in corten che abbiamo usato sono meno impattanti allo sguardo, i fili a coppie sorreggono i rami. L’irrigazione l’abbiamo montata per dare un aiuto nei primi anni, l’acqua è poca, si riesce a dare una o due irrigazioni di soccorso, vedremo più avanti in base al clima cosa sarà necessario fare.
Il vitigno da cui si ottiene il nostro rosso di Mamoiada è il Cannonau. Nei vecchi vigneti il Cannonau è presente al 90% circa, il 10% restante comprende piccole percentuali di Monica, Pascale di Cagliari, Bovale grande; sono presenti anche dei vitigni a bacca bianca: l’autoctono Granatza e il Moscato.
Nel nostro vigneto abbiamo preferito impiantare il Cannonau in purezza. Le marze le abbiamo prese dall’impianto da selezione massale dei fratelli Mele e, il nostro vivaista di fiducia, Silvano, ci ha preparato in vivaio le barbatelle. La scelta massale è stata d’obbligo perché nell’intento di fare un vino territoriale, non si può pensare di perdere la complessità data da tante piante madri che danno ognuna la propria interpretazione della terra nelle uve e poi nel vino; è un canto corale. Da sempre è stato così, il vignaiolo sceglieva le marze dalle migliori piante dei vigneti vicini e così complessità del vino e biodiversità venivano conservate.
Abbiamo scelto come porta innesto il 1103 Paulsen che ha come difetto una eccessiva vigoria, ma è quello che più si adatta al vitigno e ai nostri terreni di natura granitica leggermente acidi che possono essere molto siccitosi in estate e che di fatto ne mitigano la forza.
Se chiedessimo a mio cugino Davide Mulargiu di descrivere questa ghirada direbbe certamente che lui ci ha versato del sangue. Ma non in senso metaforico, infatti nei giorni precedenti all’impianto mentre raccoglievano pietre proprio qui, mio fratello Giovanni Sedilesu aveva preso male la mira lanciando una pietra, che aveva rimbalzato sulla sponda del carrello e poi era andata dritta dritta nella testa di Davide, il quale era rimasto infortunato e non aveva potuto partecipare all’impianto, cosa che ancora oggi rinfaccia a Giovanni. Ocruarana è la ghirada dove a 6 giorni dalla laurea mi sono ritrovata catapultata. Qui il nostro cane Cullera, dopo mesi di tentativi vani, ha acchiappato la sua prima lepre; che giornata quella!
È la ghirada che germoglia prima, che ci comunica i tempi di tutte le altre. È la ghirada delle riflessioni. Iniziamo tutti i lavori da qui, dall’alto della vigna. Così sali dal cancello a piedi o con L200 e arrivata in cima hai quel misto di entusiasmo e terrore nella pancia che preferisci piegare la schiena e iniziare a lavorare e il perché si intuisce.
Teularju è posto da 570 a 630 metri sul livello del mare.
Esposto a nord ovest nella ghirada alta di 2 ha, ha una media pendenza di circa il 20%; il suolo è sabbioso di origine granitica, con un pò di argille e sostanza organica, è ricco di scheletro, con infiltrazioni a tratti di una pietra metamorfica verde chiamata Ocruarana che le ha dato il nome.
La ghirada centrale, quasi piana, di 2,7 ha, prende il sole per tutto il giorno, solo la parte bassa è pendente ed esposta a nord/ovest, il suolo nella piana è sabbioso profondo a tratti con sostanza organica abbondante, qui crescevano le piante di Ferula, da qui il nome Erula; nella parte in pendenza è più ricca di scheletro.
La ghirada bassa di 2,3 ha è molto pendente, fino al 40% in alcuni tratti, da qui il nome Rizza; è esposta a ovest, il suolo è sabbioso con argille e molto ricco di scheletro.
Per ultima la ghirada che da verso il monte di Gonare, da qui Cara’Gonare di 1 ha, che è esposta a sud-sud/ovest, composta da una parte con minima pendenza e una parte più pendente, il suo suolo è sabbioso con sostanza organica e argille e scheletro abbondante nelle parti più pendenti.
Solo in alcune zone ricche di pietrame e molto povere, in particolare nella ghirada Rizza, vi abbiamo integrato la sostanza organica con humus e terra portata via dalle capezzagne nelle parti dove il suolo è più ricco e profondo.
Alla fine del 2016 iniziammo i lavori dopo che durante l’estate avevamo fatto tagliare le piante all’interno dell’area di impianto, ma non tutte, alcune querce le abbiamo lasciate con l’intento di conservare la biodiversità della flora, fauna e microfauna, il più possibile. Unita a ciò la necessità di trovare delle oasi di riposo all’ombra nelle lunghe estati calde durante i lavori, riposo per il corpo e per lo sguardo che trova ostacoli nello spaziare, mete intermedie da raggiungere, particolari che rompono la monotonia che ti fa disperare e creano bellezza da contemplare. Raccolto il pietrame, con un lavoro immane che i miei figli e nipoti racconteranno ai loro di nipoti, non abbiamo pareggiato il terreno, le diverse linee dei profili si incrociano allo sguardo e rendono fluida l’immagine del vigneto.
L’idea di base nella preparazione del terreno è stata di non alterare i profili geologici naturali, l’uso esclusivo del ripper, un dente che spacca il terreno senza rivoltarlo ci ha permesso di conservare lo strato fertile in superfice e anche, cosa molto importante, la cotica erbosa naturale che è quella in assoluto più adatta per questo terreno. Normalmente tutte le pratiche agricole rispettose e conservative, esempio il biologico o la biodinamica, cercano di rimediare ai danni che l’uomo fa all’equilibrio naturale del terreno, coltivandolo. Limitare al minimo i danni già in fase di impianto, in particolare conservando la fertilità naturale del terreno, permette che il terreno non si ammali e se non si ammala non servono cure particolari. La natura infatti è molto più complessa di qualsiasi rimedio umano.
Oggi a 4 anni dall’impianto la cotica erbosa non varia dall’interno dei filari, alla capezzagna, ai pascoli naturali nei tre ettari e mezzo di bosco che abbiamo lasciato. Solo lavorazioni del terreno superficialmente lungo la fila per la fase di allevamento delle piante, l’interfila viene solo arieggiato per rimediare al calpestio dei cingoli, con strumenti discissori profondi che non alterano minimamente, anzi aiutano, lo sviluppo delle erbe. Queste vengono controllate d’inverno con il pascolo regimato delle pecore di Antonio il nostro vicino e durante la stagione vegetativa con lo trinciatura periodica. Questi sfalci sono di fatto più sovesci durante la primavera, di mille essenze diverse, con fioriture varie e meravigliose che sono il pascolo ideale per gli insetti. In superfice le erbe impediscono l’erosione del terreno ad opera del vento e dell’acqua, sotto, le radici fittonanti, fascicolate, superficiali e profonde lavorano il terreno ossigenandolo insieme alla fauna terricola, i microrganismi lavorano in simbiosi con le piante mettendogli a disposizione le sostanze nutrienti di cui hanno bisogno e rendono insieme vivi i minerali, l’acqua si conserva bene e a lungo nella spugna biologica che si crea.
Più avanti, con le piante adulte, contiamo di non fare più neanche la lavorazione superficiale lungo la fila, lasciando che la cotica erbosa riprenda il suo posto anche sotto le piante.
La tanca di Teularju , così è la nostra pronuncia e crediamo sia giusto anche scriverlo in questo modo, nelle carte la si trova indicata come Teulargiu, ma nel paese era nota come Erularju e, a questo punto, non sappiamo chi abbia errato nella dicitura. E’ situata a confine dell’agro di Mamoiada con Orani, e, come una bisaccia, sa bertula, sulla schiena dell’asino, ricade una sacca in un comune e una nell’altro. E’ stata però da sempre proprietà di persone di Mamoiada; fino agli anni settanta di Sale Gallisai Antonio, fu acquistata dopo da Antonio Mele noto pastore e poeta di Mamoiada, il quale parcheggiò vicino alla stalla, quando arrivò a fine carriera, il suo mezzo di locomozione che lo caratterizzava nei miei ricordi giovanili, un Maggiolino verdolino, e così noi lo abbiamo trovato. Vendette in seguito a mio Zio Mario Sedilesu pastore anche lui. Nel 2015 cercavamo disperatamente un terreno per impiantare un nuovo vigneto e per caso Zia Luigia, vedova di Ziu Mario mi disse che da anni cercava di vendere questo tancato di quasi dodici ettari. Andai a vederlo senza convinzione visto che non era, in passato, una zona dedita alla viticoltura e anche mio padre Giuseppe che mi accompagnò mi disse che, andando a memoria, essendo anni che non ci passava nemmeno, non gli sembrava un terreno adatto alla vite. Appena ci arrivammo, a tre km dal paese nella vecchia strada per Orani, attraversato il cancello, mi si aprì davanti la visione di un terreno molto bello, presi l’aria fine, primaverile, a pieni polmoni e alzai lo sguardo, il monte di Gonare mi si parò davanti maestoso. Fù amore a prima vista, c’erano tante pietre, cumuli di pietre enormi di granito, ci sarebbe stato tanto da lavorare, ma il legame che si stabilì tra quella terra e me fu immediato :”il posto è molto bello, il vino sarà buono”, mi dissi. Mi girai verso mio padre, lui ancora non sembrava convinto, andava girando nei pressi battendo il suo bastone sulle enormi pietre cercando di scacciarle, lo spaventavano. Io gli andai vicino e gli dissi che avevamo trovato il terreno che cercavamo e che tutto sarebbe andato bene. “Mah , isperamus” mi rispose.